Un intervento di Giancarlo Restivo, Coordinatore Regionale AiFOS Lombardia, sulla figura del formatore alla sicurezza, in attesa dell’uscita del nuovo Accordo Stato-Regioni

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Tra qualche settimana uscirà l’Accordo Stato-Regioni sulla formazione per tutti i lavoratori e per i Datori di Lavoro che svolgono la funzione di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione. Questo comporterà la definizione del monte ore necessario per mettere in atto, in maniera sempre più definita, quel “processo educativo” richiestoci dall’ art. 2 del nostro decreto n. 81/08 alla definizione di “Formazione”.
Sì perché è un’educazione che il decreto n. 81 ci chiede e ci ha sempre chiesto, una rieducazione al lavoro secondo tutti i fattori che lo compongono: motivazione, sicurezza, qualità, attenzione etc… cercando di fare la sua parte nel supporto alla società e a quell’emergenza educativa che alcuni pensatori del nostro tempo ci hanno segnalato come problematica bruciante e che trova la sua origine in quello che, il rapporto Censis 2010, ha individuato come natura della crisi sociale ed economica, cioè quel calo del desiderio che si è manifestato in ogni aspetto della vita. Abbiamo meno voglia di costruire, di crescere e di cercare la realizzazione. Ma chi o che cosa può riaccendere il desiderio? È veramente questa la sfida? Perché? Come fa ad essere così ampio il problema?
Fino a qualche tempo fa per noi era una questione di come si usa quella o questa macchina, di come si usa questo o quell’estintore e via dicendo. Ma la portata del problema si fa più stringente e ci rende necessario fare memoria dell’origine, ancora una volta di quell’ art. 2087 del nostro Codice Civile che ci indica come principio generale che“L’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro;questo fa della professione del formatore e della formazione che deve erogare, il catalizzatore di un’ipotesi educativa e culturale unitaria di trasmissione del sapere, che richiede di essere conosciuta e condivisa (da noi del mestiere e da chi ne usufruisce) e verificata nell’esperienza. Il formatore diviene lo strumento che il Datore di Lavoro ha per tutelare e ricostituire, ove venisse ad essere minacciata, quella “personalità morale” così preziosa per la propria impresa. Pertanto noi formatori come possiamo compiere appieno questo ruolo decisivo?
In questi giorni si è parlato molto di qualificazione e certificazione della nostra professione, di monitorare continuamente il nostro operato e che siamo i primi ad aver bisogno di aggiornamenti continui. Proprio perché, abbiamo la responsabilità di dare “forma” a colui che compierà l’opera del lavoro. Ma quali sono gli elementi intrinseci di tale responsabilità da qualificare e certificare?

1. Un percorso condiviso

Il primo elemento di tale responsabilità è che siano condivisi tra formatori, discenti e Datori di lavoro gli obiettivi specifici  del percorso di miglioramento, pur se a livelli diversi d’esplicitazione (in tale condivisione può esserci notevole differenza tra il livello della formazione di base e quelli successivi). Una visione d’insieme necessaria e condivisa, fuori dalle mura di un’aula e prima di entrarvi (la capacità di mettere in atto una proposta e un progetto formativo, di trovare soluzioni).

2. Il cambiamento come obbiettivo primario

Il secondo elemento è antropologico perché, se gli oggetti sono pericolosi, noi soggetti coi nostri “comportamenti”, lo siamo ancora di più. Il formatore ha come obbiettivo quello di rispondere alla domanda che inconsapevolmente ogni lavoratore porta dentro di sé entrando in aula: cambiami, fammi uscire diverso, migliore, fammi accorgere di cose che io non vedo, fammi non dare per scontato cose a cui attribuisco poco valore, mentre sono fondamentali. Quindi il primo di tutti gli obbiettivi di cui acquisire consapevolezza è il cambiamento. Ma come cambia un uomo? Né per necessità né per volontà; un uomo cambia solo se ha una termine di paragone, un “altro” a cui è affettivamente legato, che stima e che quindi segue. Non si basa forse su questo criterio il fattore costitutivo della responsabilità attribuita al preposto di fatto? Ma non esiste forse per questo dato reale il nostro mestiere?

3. La centralità del discente

Il terzo elemento come chiave di volta del dialogo con i lavoratori è che si impara solo ciò che si ama: senza gusto non si dà apprendimento, per questo stiamo andando nel cuore di ciò che ci segnala il Censis. E che cosa dà gusto, se non il sentirsi chiamati per nome, il sentire che chi ci sta formando è “dalla nostra parte”. Che sconforto un’azienda dove io passo inosservato e che io ci sia o no per l’altro è lo stesso. Questa è la prima condizione, perché l’apprendimento e lo sviluppo personale sono un’unità. Quest’anno con l’argomento “No Stress” più volte ce lo siamo portati alla mente.

4. Un interesse innanzitutto per il formatore

L’ultimo elemento è che il formatore ami ciò che intende comunicare. La risorsa umana, il lavoratore, insomma, chi ci ascolta, intuisce senza inganno se quello che stiamo dicendo e facendo lo abbiamo a cuore o se è un convenzionalismo. Ma la passione per il proprio mestiere non è frutto di uno sforzo, sarà il risultato di quanto noi metteremo in campo, il nostro desiderio di realizzarci pienamente lottando contro il cinismo imperante che sta rendendo sterile ogni agire.
Ci tengo a puntualizzare infine che ciò che ho sovraesposto è da considerare unitariamente ed è ordinato in punti per chiarezza di esposizione.
Concludendo, con l’accordo in arrivo e al di là dei formalismi, ciò che verrà chiesto ai Datori di lavoro, imprenditori e non, e a noi che li supportiamo sarà uno sforzo ulteriore, non tanto economico e nemmeno organizzativo/gestionale (queste problematiche saranno conseguenti). In primis ciò che questo sforzo richiederà sarà riprendere in mano le logiche ragioni di un obbligo che fino a ieri poteva anche essere sottovalutato, trattato come mera “ottemperanza”, ma che adesso ci costringe a chiederci se serva veramente, se porti un vantaggio all’opera del lavoro o no. E se perderemo anche questo treno di consapevolezza, questa provocazione, quali saranno le conseguenze? Perderemo una provocazione che potrà far crescere l’Italia intera? In certi termini credo di sì e ciò accadrà solo se ridurremo il problema misurandolo in termini economici e tecnici e non capiremo che in ballo vi è ciò che conta: noi e la responsabilità di trattare tutto in maniera adulta, cioè secondo tutti i fattori in gioco. Come ci ricordava Joseph Joubert intorno al 1800: La direzione in cui si muove la mente è più importante del suo concreto progresso.

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