Riproponiamo l’intervento del Presidente della Nuova Organizzazione d’Imprese Giancarlo Restivo. Riconosciamo questo intervento dell’estate scorsa ancora fortemente attuale e determinante, nel giudizio, per le circostanze che stiamo vivendo.

 

In questi giorni, molti di noi si stanno preparando alle ferie. Io mi auguro che il tempo del riposo non sia un tempo per assentarci da noi stessi. Sopratutto in questo periodo di continue contraddizioni, abbiamo bisogno di aiutarci in un giudizio che sia il più realista possibile.

Stiamo sperimentando le conseguenze socio-politiche di una crisi che ha un’origine culturale. La condizione che stiamo vivendo è il risultato di una impostazione culturale liberista che può sintetizzarsi nell’espressione “Maggior profitto nel minor tempo, ad ogni costo” cioè Il profitto come scopo esclusivo dell’esistenza.

Se pensiamo che l’immane debito pubblico, che grava sul nostro “groppone”, è nato dall’attività di individui che, preoccupati di accontentare l’elettorato per ottenere voti, non hanno avuto scrupoli a riversare sulle generazioni future il prezzo delle conseguenze da pagare, si capisce cosa un’impostazione del genere sia capace di produrre. In una concezione culturale di tipo liberista è insito un rilevante problema di natura antropologica: una scorretta concezione della libertà.

Quante volte abbiamo sentito definire la “libertà” come assenza di legami, come fare quello che ci “piace”. Ma questa definizione non regge, nella vita reale non regge, va contro ogni ragionevolezza. Ciò che io faccio nel presente produce conseguenze nell’immediato e nel tempo, genera ripercussioni che io posso prevedere solo limitatamente, per un dato di fatto molto semplice: la realtà non la faccio io, non la possiedo, è più grande di me. Eppure, pur di affermare la possibilità di perseguire i propri interessi individuali, la cultura di oggi nega e ha negato questa evidente verità, cioè che il presente esige di essere vissuto con responsabilità, in virtù dgli effetti che ogni nostro comportamento produce sul destino degli altri.

Quella liberista è una posizione che abbiamo vissuto quasi come ossessione ed ha generato un ripiegamento su noi stessi. Il lavoro non è stato più vissuto come espressione della nostra personalità, dei nostri talenti e della nostra professionalità; ma l’opera della nostra vita, l’impresa, il lavoro quotidiano è diventato espressione solo della nostra possibilità di riuscita. Abbiamo trasformato le nostre capacità nell’unica risposta alle nostre attese, senza concessione di fallimento, senza possibilità di errore. Pertanto ci siamo esposti al rischio di lasciarci definire dalla nostre azioni.

Adesso, però, ci rendiamo conto che non sono più sufficienti le solite risposte, che una libertà come assenza di dipendenza non regge, che dobbiamo liberarci dalla schiavitù delle circostanze. La vera libertà è l’affermazione di una dipendenza dalla realtà che non è opera nostra. La libertà è innazitutto data, è un grande potere e, come ci ricorda Stan Lee, “…da un grande potere, derivano grandi responsabilità”.

La nostra associazione ha questo come scopo primario: combattere l’individualismo a favore di un “noi”. La nostra rete, il network che stiamo costruendo, non si incolla artificialmente alla vita di tutti i giorni, ma è strettamente connesso a questo scopo. Per non rimanere schiavi delle circostanze, per non schivare il quotidiano, perchè “scomodo”, non ritenendolo degno dei nostri “piani”, bisogna tornare all’origine del perchè ci siamo messi insieme.

Se abbiamo speso le nostre forze puntando sulla creatività delle nostre aziende, se abbiamo puntato sul costruire nuove reti relazionali, se abbiamo deciso che valesse la pena spenderci sulla trasverslità e l’intersettorialità, se abbiamo introdotto il principio che l’aiuto al ricollocamento professionale fosse una fattore decisivo per lo sviluppo, se abbiamo accettato la sfida dell’interassociatività, valorizzando le risorse presenti, è perchè abbiamo riconosciuto che c’è una ragione grande che va oltre le rendite, i privilegi e gli orticelli che ognuno di noi può costruirsi, reali o meno. Ciò significa che un popolo si crea sulla base di ciò che ama, sulla condivisione di ciò che ama e su ciò che abbiamo di più caro: la realtà stessa.

L’uomo cerca un’appartenenza, una compagnia che aiuti ad assumersi il rischio della libertà. Ma ciò che ci rende capaci di rischiare è la coscienza che la realtà non la facciamo noi, che dobbiamo guardare al presente come ad una possibilità in cui spendersi. Il rischio individualistico rende l’altro un avversario da combattere, anzi da abbattere e non è certo quello che, in fondo, vogliamo. Da qui nasce l’urgenza di sostenenrci nel riaffermare come criterio determinante la funzione sociale dell’impresa, realizzabile attraverso un agire etico, conseguenza del rispetto di regole certe che immaginano il rapporto tra l’impresa ed il contesto in cui opera come virtuoso e non secondario rispetto al desiderio di fare “utili”; solo allora, anche il guadagno potrà definirsi “giusto”. Ma tutto questo darà frutto se accetteremo la sfida di un lavoro personale. Noi lavoriamo per l’unità tra gli uomini. Sostenendo questa iniziativa, affermiamo la nostra speranza.

Questa è una politica vera, l’impegno nel cercare strumenti e metodi per costruire insieme una fedeltà a questa ragione, un nuovo concetto di appartenenza. Come diceva Giorgio Gaber in una delle sue canzoni a noi molto cara “L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé”. Tutto il nostro operare ha origine in questo riconoscimento, che deve divenire la vera base culturale da cui ripartire, a favore di una prospettiva di crescita integrale e reale. Per fare ciò è necessaria una leatà profonda da parte nostra.

E’ necessario un ripensamento delle ragioni che hanno regolato le nostre azioni fino ad adesso. Allora sì che il periodo che stiamo vivendo potrà definirsi salutare. Saranno necessarie azioni più realiste. Così come Stato e Finanza necessitano di mettersi al servizio dell’economia reale, anche le nostre imprese dovranno mettersi al servizio di una razionalizzazione delle risorse, per non smettere di investire in innovazione. Ridurre i costi e investire nel mercato globale; avere meno disponibilità di risorse esigerà un coraggio che dovrà fondarsi su un’idea di realtà più onesta e non manipolabile a proprio o altrui piacimento.

Concludo augurando a me e a tutti noi, di non “ammazzare” il tempo messo a disposizione da questa estate, perchè come ci suona Luciano Ligabue “…il tempo invece servirebbe vivo” (da Chissà se in cielo passano gli Who).

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